[quote][/quote]Sono giorni complicati.
Ci hanno molto colpito le telefonate e le mail di quei genitori che, preoccupati per il coronavirus, ci hanno comunicato la scelta di tenere a casa i propri figli, così come coloro che hanno invece voluto accertarsi della presenza del sapone nei bagni, o che hanno dotato i figli di disinfettanti che campeggiano sui banchi al pari di penne e lapis, fino a chi li ha forniti di mascherina…
Sono giorni di circolari e decreti, di disposizioni e misure… Noi crediamo che sia necessario comunicare, oltre le circolari e le decisioni sofferte (abbiamo dovuto annullare la gita a Londra delle Terze, prevista dal 9 al 14 marzo), una prospettiva più ragionevole che sentiamo necessaria innanzitutto per noi.
[quote][/quote]Era in quel giorno morta di peste, tra gli altri, un’intera famiglia. Nell’ora del maggior concorso, in mezzo alle carrozze, alla gente a cavallo, e a piedi, i cadaveri di quella famiglia furono, d’ordine della Sanità, condotti al cimitero suddetto, sur un carro, ignudi, affinché la folla potesse vedere in essi il marchio manifesto della pestilenza. Un grido di ribrezzo, di terrore, s’alzava per tutto dove passava il carro; un lungo mormorìo regnava dove era passato; un altro mormorìo lo precorreva. La peste fu più creduta: ma del resto andava acquistandosi fede da sé, ogni giorno più; e quella riunione medesima non dové servir poco a propagarla.” (A. Manzoni, I promessi sposi, cap. XXXI, 465-470)
Lo stesso mormorio sentiamo oggi: non c’è bisogno del passaggio del carro a mostrarci il marchio manifesto della pestilenza, ci sono i social ed i whatsapp a mettercelo davanti fin quasi a renderci molto simili a coloro che Giovanni Boccaccio ha descritto (per averlo sperimentato nel 1348) quando la peste ha attraversato la nostra Firenze “Alcuni erano di piú crudel sentimento, come che per avventura piú fosse sicuro, dicendo niuna altra medicina essere contro alle pestilenze migliore né cosí buona come il fuggir loro davanti: e da questo argomento mossi, non curando d’alcuna cosa se non di sè, assai ed uomini e donne abbandonarono la propria cittá, le proprie case, i lor luoghi ed i lor parenti e le lor cose”. (G. Boccaccio, Decameron, Giornata prima – Introduzione, pag. 13)
La paura che si respira nell’aria e con cui inevitabilmente “contagiamo” le giovani generazioni che ci sono affidate, aggrava quel clima già presente nel nostro mondo per cui – non curando d’alcuna cosa se non di sè – rischiamo di veder riaccadere ciò che Boccaccio ha documentato con parole brutali: “l’un cittadino l’altro schifasse e quasi niun vicino avesse dell’altro cura ed i parenti insieme rade volte o non mai si visitassero e di lontano, era con sí fatto spavento questa tribulazione entrata ne’ petti degli uomini e delle donne, che l’un fratello l’altro abbandonava ed il zio il nepote e la sorella il fratello e spesse volte la donna il suo marito, e che maggior cosa è e quasi non credibile, li padri e le madri i figliuoli, quasi loro non fossero, di visitare e di servire schifavano”.
Questa è l’inevitabile prospettiva verso cui la paura rischia di portarci, perciò si arriva a ritenere ragionevole il barricarsi in casa dopo aver prima “assaltato” il supermercato per garantirsi le scorte idonee alla strenua sopravvivenza.
Davanti a questo crescente clima che ci raggiunge e ci aggiorna costantemente coi nostri smartphone e con le immagini che rimbalzano in tutti i canali televisivi, ed al rischio di schifarsi gli uni degli altri – finanche di quelli più prossimi – pensando di poterci salvare solo con massicce e ripetute abluzioni, è necessario chiederci se esiste un modo più umano di guardare questa circostanza.
La realtà che abbiamo davanti urge e ci chiede di approfondire le ragioni del nostro fare, ma soprattutto ci impone – costringendoci – a domandarci in cosa noi consistiamo di fronte alla paura, all’impotenza, alla solitudine che da tale circostanza scaturiscono. E questa circostanza è l’occasione per noi insegnanti, genitori, ragazzi, di domandarci qual è la statura del desiderio (e del cuore) che tentativamente e quotidianamente la scuola invita a riconoscere, facendone il suo ultimo e più vero scopo.
È la risposta a questa domanda ciò che vince la paura (non le mascherine né l’amuchina).
Ciò a cui abbiamo dovuto rinunciare (dalla gita a Londra, annullata, ai viaggi di istruzione delle prime e delle seconde, previsti più avanti e che – per ora – sono in stand-by), non lo sentiamo come una perdita ma come occasione per approfondire ciò che davvero desideriamo e per rendere più creativo il tentativo di testimoniarci quel vale la pena che sottende ad ogni proposta della scuola.
Solo così non vince la paura: se cerchiamo ciò di cui consistiamo davvero.
Questa è la natura della scuola!
E questa è la scuola che vogliamo portare avanti con chiunque condivida questo stesso desiderio.