Inizio di Scuola (post covid)

Mai l’ordinario inizio della scuola è stato, come stavolta, carico di una straordinaria attesa, perfettamente documentata dagli sguardi trepidanti degli alunni delle Classi Prime che stamani si sono affacciati, per la prima volta, agli Artigianelli.
Questi 194 giorni hanno fatto crescere, oltre che l’attesa ed il desiderio, la meraviglia di esserci che la scuola ha il compito di “curare” e far crescere.
Questo è il messaggio con cui il preside ha iniziato l’anno scolastico ed ha accolto gli alunni e le famiglie.
 
[quote][/quote]E quindi uscimmo a riveder le stelle[quote][quote]”[/quote][/quote]
Dal quel lontano 4 Marzo in cui eravamo ancora nel freddo dell’inverno, sono passati ben 194 giorni. Nessuno di noi avrebbe mai immaginato che la campanella di quel giorno sarebbe stata l’ultima della quinta elementare, quella che avrebbe – col suo suono – segnato il vostro “ciao” alla maestra o al maestro ed ai vostri compagni, come l’ultimo nella vostra scuola. Era 194 giorni fa.
Quantificare e dare una dimensione concreta al tempo, a questi centonovantaquattro giorni, è molto difficile e per questo gli uomini hanno inventato l’orologio ed il calendario.
Ma per capirne il valore, per renderlo meno effimero, per dargli una consistenza, dobbiamo provare a farlo diventare qualcosa di concreto, di comprensibile.
Il valore del tempo è in ciò che, durante il suo scorrere, ci accade (e sul motto degli Artigianelli a riprova di questo, sta scritto: “il viver si misura dall’opre e non dai giorni”).
Cosa ci è accaduto in questi 194 giorni? Partiamo dal fondo, da ciò che è più prossimo e che è più facile ricordare. Certo c’è stata, come ogni anno al termine della scuola, un’estate di vacanza, in cui forse siete stati al mare, avete passato un po’ di tempo dai nonni, qualcuno avrà anche fatto quei compiti che gli erano stati suggeriti…
Prima dell’estate c’è stata tutta un’intera primavera in cui non siamo potuti andare a scuola, non abbiamo potuto vedere i nostri compagni, la nostra maestra o il nostro maestro (se non forse in video), non abbiamo potuto giocare (se non ai videogiochi), non abbiamo potuto far visita ai nonni, non abbiamo potuto praticare lo sport che ci piace, non abbiamo potuto fare nulla di ciò che normalmente facciamo, perché un evento inaspettato, inimmaginabile, il virus che ha colpito il mondo intero, ci ha chiusi e obbligati nelle nostre case. Ma proviamo anche a pensare a ciò che, insieme alla scuola, durante questa intera primavera ci siamo persi: il germogliare della natura, lo sbocciare dei fiori, il loro profumo ed i loro colori, il nascere delle farfalle, l’arrivo delle rondini, l’affacciarsi al sole delle lucertole, il volo delle api di fiore in fiore, le fragole, le ciliegie, le uscite in bicicletta, le passeggiate lungo l’Arno, l’allungarsi delle giornate, la luce del tramonto, il tepore del sole dopo il freddo dell’inverno…
Così, con l’elenco ancora incompleto di ciò che è mancato, questi 194 giorni hanno acquistato una concretezza che ora abbiamo più chiara.
Quanto più sentiamo la mancanza di queste cose (e ne potremmo aggiungere molte altre), tanto più ne sentiamo – acuto – il bisogno. È questo che ci avvicina a capirne il valore.
Il lockdown perciò, oltre a ridurre i contagi, ha prodotto misteriosamente in ognuno di noi questo effetto grandioso: ci ha fatto accorgere di quanto sono importanti le cose che normalmente diamo per scontate, ma ancora di più ci ha fatto accorgere del valore del nostro esserci, col nostro bisogno incontentabile, inesauribile. E ci ha fatto accorgere (incredibilmente) anche del valore che è – per ognuno di noi – la scuola. Un’assenza ci ha fatto accorgere del valore di una presenza. Vi racconto un fatto che aiuta a capire.
Proprio ieri, domenica, alla messa nella parrocchia dove vado di solito, don Pierfrancesco alla preghiera dei fedeli ha ricordato all’assemblea di pregare per questo inizio della scuola. A quel punto un ragazzino della vostra età, seduto poche sedie più in la, sulla mia stessa fila. in modo assolutamente spontaneo e sincero, ha esclamato a voce alta, quasi grandangolo, un “Evviva!”; tutti i presenti si sono girati a guardarlo ed a tutti ha strappato un sorriso. Così mi sono accorto, guardandomi intorno, che quei sorrisi erano di due tipi: uno pieno di quel disincanto tipico di molti adulti, di chi “la sa lunga” e guarda alla realtà non attendendosi nulla, considerandola un vuoto a perdere, e magari avrà pensato “povero ingenuo, sei solo un bambino, cosa ne sai…”; per altri invece il sorriso era pieno di “simpatia” (che nella sua radice vuol dire proprio “sento come te”, “ti sento vicino”, “partecipo a ciò che tu provi”, partecipo – in quel caso – al tuo “Evviva!”).
Se il bambino che grida “evviva!” per ciò che va a riiniziare (e che evidentemente gli è mancata davvero tanto) esemplifica la scoperta del valore dentro ciò che manca, il sorriso degli adulti esemplifica che cos’è l’educazione. La simpatia per l’umana avventura è l’atteggiamento con cui si educa, con cui occorre guardare a ciò che accade ed alle persone, per scoprirne la bellezza nascosta. È per questo valore grande e nascosto che si è disponibili a correre il rischio; non il rischio di essere contagiati dal virus, bensì un rischio molto più grande, quello dell’“educare”, del mettersi in gioco, aprire interrogativi, suscitare domande, scuotere le nostre convinzioni, scoprire sé.
Chi, in questi 194 giorni, ha parlato e scritto – tantissimo, diffusamente, quotidianamente – di scuola, non è partito dall’attesa dei bambini, da quell’”Evviva!” gridato al sentire del suo imminente inizio, ma ne ha parlato come di un reparto di ospedale, un “sanatorio” (rischio, focolai, sintomi, pandemia, test sierologici, tamponi, sanificazioni, “setting aula”, lavoratori fragili, dipartimento di prevenzione, casi sospetti, catene di trasmissione… e potremmo continuarequasi all’infinio), mentre chi avrebbe potuto parlarne con più senso, venendo dal mondo della scuola, ne ha ridotto la questione alla distanza tra le rime buccali, ai banchi con le rotelle, ai box di plexiglas, alla didattica a distanza, all’imbuto, al software che dice quanti mq ha un’aula, a ciò che dicono i sindacati.
Se fossero qui, stamani, avrebbero ammirato – come noi – la trepida attesa che trabocca dai vostri occhi, dagli occhi di chi si affaccia al percorso della propria personale crescita umana, pieno di desiderio, con domande e bisogni talmente grandi da far tremare le gambe, da far sentire – se facessimo assoluto silenzio – il battito dei cuori.
Noi siamo felici di esserci e l’invito – che rivolgo a tutti degli Artigianelli e che faccio anche ai genitori, alle famiglie, a chi è qui stamani (nel rispetto delle distanze e dei protocolli) ed a chi non ha potuto esserci – è quello di lasciarci colpire ed educare (si, educare! perché la scuola è anche lasciarsi educare dai propri alunni) da questa attesa. Farci determinare da essa per trovare cosa/chi la compie in modo totale, di non accontentarci delle risposte parziali che incontreremo, ma di avere la pazienza che accada, come ci documenta mirabilmente questa poesia di Rainer Maria Rilke.
“Sii paziente verso tutto ciò
che è irrisolto nel tuo cuore e…
cerca di amare le domande, che sono simili a
stanze chiuse a chiave e a libri scritti
in una lingua straniera.
Non cercare ora le risposte che possono esserti date
poiché non saresti capace di convivere con esse.
E il punto è vivere ogni cosa. Vivere le domande ora.
Forse ti sarà dato, senza che tu te ne accorga,
di vivere fino al lontano
giorno in cui avrai la risposta.”
Rainer Maria Rilke, da “Lettera ad un giovane poeta”